15 gennaio 2022: 6mila barili di petrolio greggio sono stati dispersi lungo le coste del Perù. Questo episodio rappresenta solo l’ultimo di una lunga serie di disastri petroliferi. Ma che cos’è l’inquinamento da petrolio e quali sono stati gli incidenti più gravi?
INQUINAMENTO DA PETROLIO
Per “inquinamento da petrolio” si intende la contaminazione dell’ambiente (suolo, aria, acqua) causata da idrocarburi liquidi, ovvero petrolio greggio e derivati.
L’inquinamento da petrolio può essere accidentale o sistematico. Quello accidentale si verifica come conseguenza di incidenti di navigazione di petroliere che liberano in maniera improvvisa e incontrollata ingenti quantità di petrolio. Questi disastri petroliferi sono la causa di considerevoli danni ambientali agli ecosistemi marini e litorali ma, nonostante ciò, rappresentano solo il 10% degli idrocarburi che contaminano il mare.
Il restante 90% è dovuto a infiltrazioni naturali (inquinamento da petrolio sistematico) causate dalla cattiva gestione e/o progettazione di impianti industriali come oleodotti, impianti di trivellazione e raffinerie e, soprattutto, dallo scarico in mare di acque contaminate nel corso di operazioni di lavaggio delle cisterne.
MA QUALI SONO STATI GLI INCIDENTI PIÙ GRAVI?
Nonostante la navigazione delle petroliere sia fortemente regolamentata, la cronologia dei disastri petroliferi avvenuti in mare nel corso della storia è impressionante. Vediamo dunque quali sono alcuni dei più gravi disastri petroliferi!
1) Amoco Cadiz, 1978Il più vecchio disastro petrolifero avvenuto direttamente in mare è senza dubbio quello della superpetroliera liberiana Amoco Cadiz, che nel marzo del 1978 si incagliò al largo delle coste bretoni per un critico guasto al timone, rilasciando 260.000 tonnellate di greggio e contaminando più di 200 chilometri di costa. Il contraccolpo fu devastante per la Shell, la società alla quale il carico era destinato, e il danno ambientale fu enorme.
Il 24 marzo 1989 una petroliera statunitense, l’Exxon Valdez, naufragò per un errore del capitano lungo le coste dell’Alaska. Questo incidente provocò un danno enorme sia a livello economico che a livello ambientale: furono contaminati 1900 chilometri di costa quasi vergine! A seguito dell’incidente, circa 20 specie di pesci hanno riportato danni a livello genetico, deformità fisiche e ridotti tassi riproduttivi e di crescita; ciò ha comportato gravi ripercussioni sulla pesca locale sia perché, a causa dei bassi tassi riproduttivi nel tempo gli stock ittici si erano ridotti, sia perché ciò che veniva pescato era spesso rovinato e quindi non adatto al consumo e al commercio. In seguito a questo evento drammatico, nel 1990 è stato redatto l’Oil Pollution Act, un accordo tra varie nazioni che prevede di attuare delle misure di prevenzione proprio per andare a ridurre gli incidenti da petrolio. È stato anche istituito un fondo fiduciario, l’Oil Spill Liability Trust Fund, usufruibile da varie nazioni per supportare i costi della rimozione dell’inquinante in caso di incidente.
Pochi mesi dopo la fine della Guerra del Golfo, la petroliera cipriota Amoco Haven affondò nel Golfo di Genova dopo una serie di esplosioni avvenute nel corso di tre giorni a seguito di guasti meccanici. Grazie al pronto intervento dell’Ammiraglio della Marina Militare Antonio Alati e alle condizioni meteorologiche favorevoli lo sversamento di greggio venne limitato ma si è trattato comunque di 144.00 tonnellate di petrolio rovesciate a mare, il più grande disastro petrolifero mai avvenuto in Italia.
La sera del 16 gennaio 2001 la petroliera Jessica naufragò lungo le coste delle isole Galapagos, davanti all'isola San Cristobal. Questo straordinario arcipelago è la dimora di numerose specie animali e vegetali, gran parte delle quali endemiche, ossia presenti solo in queste isole. Lo sversamento di idrocarburi in questo paradiso terrestre è stato di conseguenza un evento molto drammatico.
Quello della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon è considerato da molti il peggior disastro ambientale di sempre. Durante la perforazione del pozzo Macondo, il 20 aprile del 2010, un’esplosione uccise 11 persone e causò un violento incendio. Dopo circa 36 ore dall’esplosione iniziale, la piattaforma si rovesciò e affondò. La conseguente uscita di petrolio continuò fino al 15 luglio di quell’anno, quando fu definitivamente chiusa. Si calcola che in questo periodo siano state disperse in mare tra le 414.000 e le 1.186.000 tonnellate di greggio.
IMPATTI SULLA FAUNA E FLORA MARINA
L’inquinamento da petrolio provoca gravi conseguenze sulla flora e la fauna marina.
Innanzitutto, il petrolio ha effetti tossici sul plancton, ossia su quell’insieme di organismi acquatici, animali e vegetali, che vivono sospesi in balia di onde e correnti senza rapporto con il fondale marino. Nelle zone interessate da tale forma di inquinamento si assiste, infatti, a una drastica riduzione di questi microrganismi, con gravi ripercussioni a catena sull’intera rete alimentare. Altre vittime del petrolio sono poi gli uccelli: il greggio penetra nel piumaggio di questi animali e ne causa la perdita delle proprietà idrorepellenti, del potere isolante (rendendo gli uccelli vulnerabili alle escursioni termiche ambientali) e della capacità di volo. L’istinto poi porta questi animali a pulirsi il piumaggio con l’uso del becco, ma in questa maniera ingeriscono il petrolio, il quale provoca effetti nocivi ai reni, al fegato e all’apparato digerente. Molti uccelli, di conseguenza, muoiono prima dell’arrivo dei soccorsi umani.
Il petrolio si è rilevato tossico poi anche per le larve di molte specie di pesci, causandone la deformazione e la morte. Infine, i mammiferi marini esposti al petrolio presentano spesso infiammazioni cutanee, lesioni agli occhi e lesioni cerebrali; attaccandosi alla pelliccia poi, il petrolio riduce la capacità di questi animali di isolarsi dall’acqua fredda, provocandone così la morte per ipotermia.
RIMOZIONE DEL PETROLIO E MONITORAGGIO
Sono state sviluppate nel corso degli anni delle misure per contenere l’effetto di questi incidenti. In alcuni casi si utilizzano le “booms” (Fig. 9), ossia delle strutture galleggianti dotate di un panno verticale che va ad assorbire il petrolio riducendone la dispersione.
In altri, si predilige l’uso di strumenti galleggianti muniti di pompe (skimming) per aspirare la macchia di petrolio oppure l’utilizzo di prodotti chimiche che vanno a disgregare il petrolio (Fig. 9). Un metodo ancora più estremo consiste nell’incendiare l’olio: dopo aver circoscritto l’area in cui è presente il petrolio in superficie, questo viene infiammato e quindi attraverso la combustione eliminato. Gli incendi di questo tipo oramai sono all’ordine del giorno poiché negli anni sono incrementate sia le attività di trasporto ad opera delle petroliere sia le attività estrattive. Infine, gli studi di risanamento ambientale (bioremediation) degli ultimi anni hanno portato alla scoperta di un gruppo di batteri marini, i batteri idrocarburoclastici (o BIC), che riducono naturalmente la contaminazione da petrolio degli ambienti marini; tuttavia, l’utilizzo di questi microrganismi è ancora limitato sia perché hanno una vita molto breve (scompaiono dopo aver “mangiato” una chiazza di petrolio), sia perché l’introduzione di nuovi ceppi batterici nelle acque inquinate potrebbe, secondo alcuni scienziati, alterare gli equilibri ecologici dell’ambiente marino.
Ad ogni modo, a seguito di un incidente petrolifero è necessario eseguire un monitoraggio regolare dell’area interessata. A tale scopo, nel Mar Mediterraneo vengono normalmente impiegati aerei o navi ma i costi di tali operazioni sono notevoli e, come se non bastasse, la disponibilità dei mezzi è limitata. Le immagini satellitari offrono, di conseguenza, un rilevante contributo in questo campo poiché consentono di identificare eventuali chiazze di petrolio su aree anche molto estese.